Suonavano a festa le campane della chiesa di San Giovanni in quel tiepido e limpido mattino di aprile. I frati agostiniani invitavano il popolo a festeggiare con loro la Madonna del Buon Consiglio. Era il 26 aprile 1791. Non distante dalla chiesa risuonava festosa anche la casa di un modesto parrocchiano, un venditore di vasi di creta, Bernardo Quilici, per la nascita del dodicesimo figlio.
L’indomani, con la celebrazione del battesimo, lo chiamerà Giovanni Battista. Coincidenza? Profezia? Provvidenza?… Ma quel bambino sarà per Livorno «l’uomo del buon consiglio». Sarà per Livorno e per la Chiesa «un precursore» intelligente e geniale di promozione ed elevazione umana e cristiana. Fin da bambino avvertì la vocazione al sacerdozio e vi corrispose con amore ed entusiasmo.
A vent’anni era tra i chierici della cattedrale e il 5 aprile 1817, giorno del Sabato santo, fu consacrato prete. Durante la preparazione al sacerdozio, presso la scuola teologica dei Barnabiti, aveva imparato l’assoluta necessità che «Cristo regni nei cuori e nelle istituzioni umane». Dai Domenicani, che da giovanotto frequentava assiduamente, aveva udito ripetere spesso che «San Domenico parlava con Dio o parlava di Dio».
Le due lezioni diventano ora il programma del suo apostolato pastorale: a San Sebastiano, dove è nominato Vice-curato e vi rimane per diciotto anni; quindi nella nuova chiesa dei Santi Pietro e Paolo, come Rettore e poi come Parroco fino alla sua immatura morte. Pregare, santifìcarsi, amare: fu il trinomio della sua vita sacerdotale. Cristo Crocifisso gli dava forza; lo Spirito Santo gli dava luce; i suoi programmi pastorali lo accendevano di entusiasmo. Poi scriverà: «Ho fatto a Dio generoso sacrificio di tutto me stesso, per il bene dei miei amatissimi cittadini».
Passava ore della notte in preghiera davanti al tabernacolo; «Parla con Gesù» testimonia il suo sagrestano di Ss. Pietro e Paolo. Da qui la sorgente della sua vita interiore e il dinamismo della sua azione pastorale. Alla Madonna riserba un amore filiale, devoto, fiducioso. Canta Maria con prediche elevate e solenni. La canta col genio dei poeti e dei Padri della Chiesa e la fa cantare dal popolo, specialmente nel mese dì maggio. Irradiato dall’ unione con Dio, riverbera la luce sul mondo che lo circonda. Per le strade più ambigue della città, nelle vicinanze del porto, sostavano, per vizio o per miseria, donne traviate. Volle avvicinarle; e la grazia divina spesso trionfò sul peccato. Le aiutò con offerte generose; poté collocarne alcune presso buone famiglie e intanto nasceva in lui l’idea di costruire per loro una casa di accoglienza. I «forzati» del bagno penale lo muovevano a pietà. Li vedeva per la strada collegati da pesanti catene, con la loro colpa scritta sulla schiena, a caricare le immondizie. Se ne interessò, ottenne l’accesso nelle umide e malsane celle del «bagno» e, con amore che conquide, diventò amico, protettore e padre spirituale di quei disgraziati fratelli che si sentivano riportati «a dignità».
Al confessionale dedica gran parte del suo tempo. La gente lo cerca perché sa indirizzare ad alte vette chi aspira a maggiore perfezione e sa scuotere e riportare alla pace con Dio i cuori più induriti dal peccato. I giovani, assetati di verità, si radunano da lui a sera inoltrata, conquistati dalla sua generosità e dalle sue edificanti e profonde lezioni. Ma la sua lungimiranza scruta il futuro e la sua previdenza gli suggerisce iniziative encomiabili che qui appena ricordiamo: LA CONGREGAZIONE DEI PADRI Di FAMIGLIA, da lui ideata e istituita nei primi anni di ministero (1822) e diretta fino alla morte, allo scopo di riunire uomini impegnati ad attendere alla propria santificazione e all’insegnamento della dottrina cristiana ai fanciulli. LA PIA UNIONE DEGLI OPERATORI EVANGELICI, con la quale intende animare i sacerdoti ad occuparsi con il loro zelo apostolico ad istruire i loro prossimi nei principali doveri di quella Fede che professano. LA COSTRUZIONE DEL SEMINARIO DIOCESANO, per una formazione adeguata dei futuri sacerdoti. Non mancarono difficoltà e ostacoli, che provenivano dalle autorità locali e governative, ma finalmente il 21 novembre 1850, il vescovo Gavi poté benedire l’auspicata costruzione. Era la festa della Presentazione della Madonna al tempio, proclamata festa patronale del seminario. Don Quilici non era presente; da sei anni era salito in cielo.
Ebbe invece la grazia di essere presente il 1 luglio 1837, alla inaugurazione dell’ISTITUTO S. MARIA MADDALENA. Nel suo progetto doveva essere una casa per «donne ravvedute» ma, suo malgrado, dovette accettare di farne un educandato femminile con scuola per bambine povere. Queste, insieme alla istruzione religiosa, erano avviate al lavoro con lezioni di tessitura, tintoria e ricamo. Fu la prima scuola, e gratuita, aperta ai poveri in Livorno. In reparti separati erano anche accettate ragazzine esposte alla seduzione e ragazze traviate ma impegnate ad emendarsi. Per tale opera occorreva personale. Fu pensato alle Suore del Buon Pastore, di Torino; ma per motivi di giurisdizionalismo locale esse non accettarono. Un piccolo gruppo di «maestre» che avevano risposto all’invito di Don Giovanni per occuparsi di una scuola di lavoro, si offrirono per fondare una congregazione religiosa diocesana. La proposta da lui condivisa segna l’avvio della Congregazione delle Figlie del Crocifisso. Espletate le pratiche dovute, il vescovo mons. Raffaello Cubbe il 13 settembre 1840, celebrò il rito della vestizione religiosa delle prime cinque suore e con suo Decreto sancì l’erezione canonica della Congregazione.
Il giorno 1 ottobre 1835 venne nominato Rettore della chiesa dei SS. Pietro e Paolo, la quale sarà poi aperta al culto il 21 dicembre seguente. Mise il suo nuovo incarico sotto la protezione di Maria Ausiliatrice; per i fedeli introdusse la pia pratica del «mese mariano» e per il 13 ottobre del seguente anno indisse un pellegrinaggio per ringraziare l’Ausiliatrice dello scampato pericolo della peste che lui stesso aveva contratto. Il 31 marzo 1837 fu nominato Vicario Assoluto (termine equivalente a parroco) della stessa chiesa, resa indipendente dalla Pieve di S. Jacopo. Appena tre mesi dopo gli giunge la sorprendente notizia della sua nomina a Canonico Penitenziere della cattedrale. Incarico di grande importanza ma a lui non gradito, sia per la sua umiltà, sia per il desiderio di rimanere parroco di un popolo a cui ormai era affezionato. La sua rinuncia fu accolta. «Rimase ancora al suo umile posto (scrive don Angeli), tra quelle figliole e quel popolo cui il Signore l’aveva inviato a spandere i suoi doni».
Si mostrò parroco esemplare e non risparmiò fatiche, giorno e notte disponibile verso ogni bisogno. Per conoscere meglio i singoli parrocchiani, subito, nel 1837, visitò ogni famiglia e stese di sua mano lo «stato d’anime». Beneficò chiunque si trovava nel bisogno con grande generosità e per impedire il peccato, specialmente pubblico, non risparmiò parole dure, esponendo a forti pericoli la sua vita. Fu aggredito dai lenoni; fu denunciato per la sua «severità». Ma intanto si riducevano le relazioni scandalose e i pubblici scandali; aumentavano i ritorni alla vita cristiana da parte di peccatori e peccatrici irretiti nel vizio mentre nei bassifondi della parrocchia raccoglieva bambine abbandonate, inferme e già viziate. Eppure tutta questa attività esteriore non lo distoglie dalla sua costante unione con Dio. Il suo è uno zelo di carità: parte dall’amore di Dio e torna a Dio presente nell’uomo, che incontra per la strada, vulnerato dal peccato ma bisognoso di redenzione. Don Giovanni offre la sua persona, il suo lavoro estenuante, ma vi unisce anche la mortificazione, lo spirito di povertà, la penitenza corporale; usa anche il cilicio. Vuole la salvezza dei peccatori. Invita a pregare per loro e istituisce a tal fine, tra i suoi parrocchiani, la «Confraternita del Cuore Immacolato di Maria». Azione, preghiera, sacrificio: il trinomio dell’Azione Cattolica egli lo lancia e lo fa vivere fin dall’inizio del secolo XIX. Ma «sebbene tenesse per fondamento che devesi amare Dio principalmente nei fratelli, non poteva trattenersi dal porgere tributi incessevoli ed immediati di riconoscenza e di amore al suo Dio… Lo dica questa chiesa recente per lui ammantata… Genio intelligente, grandioso, volto a magnificenza, anche nel procurare il maggior decoro del tempio santo a Dio!». Così il suo coadiutore parrocchiale, don Pietro Volpini, loda lo zelo di Don Giovanni per la Casa di Dio. E il Signore lo chiamò a sé mentre la sua chiesa e tutte le vie della parrocchia erano pavesate a festa. Quel lunedì 10 giugno 1844 si doveva celebrare in Ss. Pietro e Paolo la processione di «Ritornata» del Corpus Domini. Tutto era pronto, quando giunse la notizia del suo transito «da questo mondo al Padre». I funerali furono un’apoteosi.
Gesù lo volle partecipe dell’onore che Don Giovanni aveva preparato per Lui, presente nel Sacramento dell’Eucarestia. I beneficiati piangevano il padre dei poveri, il popolo esaltava il parroco devoto e buono, la città elogiava il cittadino integerrimo, le suore cantavano le virtù nascoste del fondatore, la diocesi perdeva l’icona del confratello zelante ma lo acquistava intercessore nel cielo. Il suo corpo riposa nella chiesa dei Ss. Pietro e Paolo, in una tomba costruita nella parete in comune con la cappella delle suore. Nell’arco del semplice monumento è scritto: «MAESTRO ESEMPIO GUIDA DEL SUO POPOLO» riecheggiando il libro del Siracide (44,1).